Ingegneri vs Architetti: le nostre interviste. Emiliano Patanè, architetto.
10 settembre 2019
10 settembre 2019
Una serie di interviste ai nostri esperti che mette “a confronto” due professionalità così diverse, ma in fondo così complementari, come gli ingegneri e gli architetti
Curiosamente sono stato attratto dall’architettura religiosa fin da bambino. Durante le scuole medie mi sono appassionato al disegno tecnico e, grazie alle lezioni di storia dell’arte, ho scoperto l’esistenza di alcuni stili architettonici che mi hanno aiutato a sviluppare un mio gusto personale. La vera epifania, però, è avvenuta durante l’ultimo anno del liceo, in cui il professore di disegno e storia dell’arte non ha potuto tenere la cattedra per l’intero anno accademico. Il supplente, un geometra, ci ha fatto lavorare su un progetto di ristrutturazione di un edificio unifamiliare, specificandone i vincoli legislativi. Durante lo sviluppo del progetto è definitivamente maturata in me l’idea di scegliere la facoltà di architettura.
Spazi per la comunità, luoghi in cui le persone possano lavorare, incontrarsi, mangiare o semplicemente oziare in un contesto piacevole e rilassato. È un trend in continua crescita negli ultimi anni a livello globale e ritengo che sia la risposta ad una domanda sempre crescente delle persone, una sorta di ritorno alla cultura precedente a quella del centro commerciale tipica degli anni ’90. L’architetto ha il compito di individuare le specifiche esigenze del contesto, elaborare un progetto che vi risponda e che dialoghi in modo armonico con le preesistenze circostanti.
Penso, sorridendo con affetto, che sia uno dei tanti modi di interpretare la perenne diatriba architetti vs ingegneri. Prima di ogni altra cosa siamo delle persone, e se è vero che una certa forma mentis possa aver dato la spinta decisiva all’inizio del percorso formativo, il carattere, gli interessi e il modo di vedere il mondo sono gli aspetti che ci qualificano come progettisti. Se posso cedere ad un piccolo luogo comune, oltre a quello dei numeri già nelle parole di De Crescenzo, credo che l’approccio dell’architetto dovrebbe essere più orientato alla gestione del progetto nella sua interezza, negli aspetti formali, emozionali, sociali, mentre quello dell’ingegnere più concentrato sui singoli elementi.
Non c’è una situazione specifica quanto un contesto: quello normativo italiano. È davvero difficile progettare nel Bel Paese: l’impianto legislativo (non solo di settore) è molto intricato e difficile da comprendere, inoltre abbiamo un territorio complesso dal punto di vista idrogeologico e un grandissimo patrimonio di preesistenze sulla base delle quali vengono redatte linee guida per le nuove costruzioni. Durante il periodo universitario, un mio professore di progettazione diceva (parafrasando) che i vincoli sono uno spunto progettuale meraviglioso, per quanto all’inizio possano sembrare difficili da aggirare e per quanto vorremmo non averne: alla fine del corso, durante il quale ci ha assegnato vari progetti con crescenti criticità, ho iniziato a capire quanto fosse giusto il suo assunto e non me lo scorderò più.
Ho lavorato per qualche anno in contesti prettamente industriali e ho sviluppato una certa affezione per quella tipologia di luoghi. Molti di essi ora sono in disuso e costituiscono un effettivo problema per le comunità: sono spazi molto grandi, abbandonati, a rischio crollo, spesso inquinati e non utilizzati né utilizzabili. Il mio cliente ideale, di conseguenza, potrebbe essere un finanziatore o uno sviluppatore immobiliare che condivida la mia stessa visione delle potenzialità di questi luoghi e l’importanza della loro riqualificazione e rinnovamento, sempre al servizio della comunità.
Facendo fede a quanto ho detto sino ad ora, sicuramente la riqualificazione di un complesso industriale, manifatturiero, con capannoni misti laterizio-metallici per creare spazi sociali e culturali. Due esempi tra tanti sono la Fabbrica del Vapore a Milano e il sito OGR a Torino.
Ci sono talmente tanti progetti che portano la firma di 鶹ý che è quasi impossibile conoscerli tutti. Alcuni hanno sviluppato performance eccellenti e sono stati insigniti di premi e certificazioni, ma ce n’è uno che mi colpisce particolarmente: la nostra sede di Toronto, Canada. È un edificio industriale in mattoni dei primi del ‘900 che è stato riadattato ad uso ufficio, con utilizzo smart degli ambienti, molti spazi aperti e function-oriented, e che ha anche ottenuto la certificazione LEED, quindi il lavoro di ristrutturazione deve essere stato intensivo, seppur sia stata integralmente mantenuta la sua connotazione tipicamente industriale.
Mi hanno realmente fatto questa domanda almeno 6 o 7 diplomandi a cui ho sempre risposto: ingegneria! L’architettura è molto affascinante, dal primo giorno del percorso accademico. Quello che si insegna agli studenti, oltre alle specificità tecniche o culturali, è un approccio omnicomprensivo ai progetti, e quindi al mondo intero. Cito un altro dei luoghi comuni della diatriba di cui sopra che reputo abbastanza emblematico, pur confermando l’unicità dell’individuo: l’architetto sa poco di tanto, l’ingegnere tanto di poco. E quindi perché scegliere ingegneria? Perché credo che in Italia, ci sia più terreno fertile per gli ingegneri che non per gli architetti; conosco molti colleghi universitari che, dopo la laurea, hanno dovuto inventarsi (e la creatività di certo non manca) altre professioni o si sono rinchiusi in porzioni della “professione architetto” (pratiche, certificazioni, etc) che tendenzialmente non coincidono con le aspirazioni con cui i futuri architetti si approcciano a questo percorso di vita.
Dovrebbe essere il più possibile multidisciplinare. È abbastanza ovvio che qualunque professionista, per quanto bravo, non possa essere esperto in ogni campo che un progetto di architettura comprende: studio dei flussi, studio dei comportamenti, progettazione statica, calcolo strutturale, acustica, ottica, termodinamica, sostenibilità, per citarne solo alcuni. La soluzione spesso utilizzata consiste nel delegare argomenti puntuali a professionisti specifici, con tutte le difficoltà che sorgono nel dover coordinare persone diverse in luoghi diversi con background e “mission” completamente differenti. Il team di lavoro perfetto quindi, per me, comprende tutte queste specificità, con l’architetto che, una volta definita l’impostazione generale del progetto, dirige tutti gli altri lungo il percorso che porterà a quell’obiettivo (e con questa mi sono giocato per sempre la simpatia degli ingegneri).
Emiliano Patané si laurea in architettura all’Università di Genova, collabora con uno studio architettonico e successivamente si interessa anche ai temi della salute e sicurezza. In 鶹ý dal 2013, è Senior Technical Specialist e si occupa di progetti di riqualificazione di aree dismesse. Appassionato di archeologia industriale, quando può, organizza campagne fotografiche in siti abbandonati di varia natura.